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Come la pandemia accelera la crisi delle grandi istituzioni culturali. Il caso della “Casa Dei Tre Oci”
Giuliana Donzello | 20 marzo 2021 - Arte & Cultura
![]() Che la pandemia da Covid 19 sia causa della crisi in cui versano i territori e tutti i settori del Sistema Italia, anche quelli dell’arte e della cultura, è un dato ormai assodato; che le mosse gestionali si indirizzino necessariamente verso una ragionata distribuzione della ricchezza, avviene di conseguenza. Ma che a rimanerne invischiata sia la Fondazione Venezia, apre per lo meno ad alcuni interrogativi, vista la sua vocazione a interventi e progettualità nel campo dell’arte, dei beni culturali, della ricerca scientifica e tecnologica, nell’educazione, istruzione e formazione.
Nata come rete di “investimenti bancari” riuniti per volontà del Governo Italiano nei primi anni del Novecento, nel 2004 sopravvisse solo la “Fondazione”, giuridicamente ente di natura privata e non profit. Lo scorso 2020, famigerato anno della crisi, era stata sollevata la necessità di valutare il valore degli immobili, per poter tamponare le perdite di bilancio causate in particolar modo da progetti ambiziosi, ma di scarso ritorno economico: in primis il Museo Multimediale del ‘900 a Mestre, per il quale in dieci anni di lavori per la realizzazione del suo complesso museale, sprechi, mancata ottimazione delle risorse e una direzione incapace di conferirgli un’identità, e non ultima l’epidemia tuttora in corso, ha visto lievitare il suo debito (si parla di 7 milioni di euro). Si doveva perciò “smobilizzare”; così nelle disposizioni di Bugliesi, il presidente della Fondazione, già rettore dell’Università di Ca’ Foscari, per “puntare su strumenti finanziari più redditizi per l’arte e la cultura”, come da obiettivo statutario. E tuttavia, quando nell’elenco degli immobili cedibili risultava un edificio dalla portata storica come la “Casa Dei Tre Oci”, il rischio che potesse essere svilita a hotel o centro turistico era palese, e si leggeva nella mossa del direttore della Fondazione un’imprenditorialità che non andava di passo alla cura del progresso sociale del tessuto in cui normalmente si operava. La famosa “Casa dei tre Oci” (occhi in dialetto veneziano) deve il suo nome alle tre grandi finestre che si affacciano sul bacino di San Marco, ben visibili e “curiosi” che affascinano chi si trova a passeggiare lungo la Fondamenta delle Zattere o percorre il canale. È l’esempio più noto, una testimonianza dell’architettura di inizio 900 nella città lagunare. Situata sull’isola della Giudecca, anticamente conosciuta col nome di Spinalonga, per la sua forma allungata a lisca di pesce, è “figlia d’arte” costruita nel 1913 da Mario De Maria (in arte Marius Pictor, come casa-studio personale). Nel tempo è stata luogo d’incontro e d’ospitalità per tanti artisti della Biennale, intellettuali e personaggi di fama internazionale. I “tre occhi” dell’edificio neogotico e avanguardistico sono stati acquistati nel 2000 dalla Fondazione Venezia e dopo un lungo restauro ha aperto al pubblico nel 2012, trasformandosi in uno dei rari interessanti punti di riferimento italiani per la fotografia. Ha accolto mostre di Erwitt, Salgrado, Gardini, Burri, Newton, LaChapelle, Bischof, Roiter, Ronis, Battaglia, Scianna. Malgrado le promesse di “risparmiarla”, la casa è stata messa in vendita con l’attenzione che non sarebbe stata svilita la sua vocazione; attenzione poco convincente e argomento di forte preoccupazione per la città. Costruita in un momento storico in cui la Giudecca viveva importanti cambiamenti architettonici e urbanistici, come l’edificazione dei nuovi apparati industriali dei complessi Junghaus e il Molino Stucky, nonché di vaste aree residenziali, fu poi del figlio Astolfo (pittore come il padre) e della moglie Adele. Fu grazie a quest’ultima e a Giulio Macchi, che sposò dopo la morte del marito, che la “Casa Dei Tre Oci” ospitò figure di fama internazionale come Grubicy De Dragon, Hundertwasser, la figlia di Peggy Guggenheim, Sciltian, Morandi, Fontana e Dario Fo, che la userà come laboratorio per il suo Arlecchino del 1985. Il 23 febbraio scorso, la Fondazione Venezia annunciava di aver firmato un contratto preliminare di vendita e di aver ceduto l’edificio al Berggrüen Institut, l’istituto di ricerca con sede a Los Angeles del filantropo Nicolas Berggrüen. La Casa più famosa di Venezia aprirà il 12 marzo prossimo, nel rispetto delle restrizioni imposte dal Coronavirus, con una retrospettiva di Mario De Biasi (Sois, Belluno 1923 – Milano 2013), uno dei padri del fotogiornalismo italiano. Conclusa l’odissea e salva dunque la Casa, in un regime di continuità con il passato, tra l’esultanza dei veneziani e il sollievo del comitato della Fondazione. Salva soprattutto l’identità di un pezzo di grande valore del patrimonio storico veneziano. |
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