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RUBRICHE > ARTE & CULTURA> IL PENSIERO DEBOLE. UNA DISSERTAZIONE FILOSOFICA DI LAMBERTO GIANNINI

Il pensiero debole.
Una dissertazione filosofica di Lamberto Giannini

Giuliana Donzello| 22 novembre 2018 - Arte & Cultura
Lamberto Giannini
Straordinaria riflessione sul “Pensiero debole” quella presentata dal prof. Lamberto Giannini  a ”Il Salotto di Giuliana” che si è tenuta allo” Studio Arte Mes3 – Spazio Eventi” a Livorno, il 4 ottobre scorso.
La dissertazione ha fornito risposte esaustive orientate al tipo di approccio a un pensiero filosofico, alla definizione del concetto di “Pensiero debole”, alla eventuale validità dei riferimenti del passato, e a concetti oggi non sono più praticabili.
Premesso di non essere un sostenitore del Pensiero Debole, lo studioso ha esordito ribadendo che la filosofia non è connaturata all’uomo, ma da quando è nata l’uomo non ha potuto più farne a meno. La filosofia è un pensiero diretto verso la verità, concetto ricercato e dibattuto di fronte alla crisi, per la quale  ha rischiato di morire più volte, non essendo più in grado di fornire risposte concrete.
Ogni qualvolta, in effetti, l’uomo ha costruito un proprio pensiero a dimostrazione che la propria narrazione era la sola possibile, e ciò è avvenuto a livello collettivo, la filosofia, perduta la verità e andata in crisi, si è affidata a pensieri forti. Il quadro storico proposto ha visto la citazione di un libretto di Lyotard, pubblicato dall’editore francese senza troppe prospettive, né pretese da parte dello stesso autore, ma che ha finito per scatenare un dibattito filosofico incredibile, non per le vendite o per quanto affermava, ma per essere uscito nel momento più opportuno, rivelandosi in parte un germe, per aver generato una profonda crisi negli ambienti accademici, e dall’altro per aver aperto a nuovi orizzonti.
Lyotard sosteneva che tutte le narrazioni finiscono col diventare delle metanarrazioni.
La metanarrazione hegeliana si è schiantata nei campi di sterminio; la metanarrazione marxista si è schiantata nei gulag; quella del capitalismo e del pensiero liberale nel turbocapitalismo che ha devastato l’uomo. Questi pensieri si sono in realtà schiantati contro se stessi.
Per Lyotard il pensiero hegeliano non è stato distrutto dal classismo; il pensiero marxista è stato distrutto dalla struttura ottusa del partito; quello capitalista dal capitalismo stesso.
Nel 1985 Gianni Vattimo stila il suo “Pensiero debole” raccogliendo tutti i pensieri che ruotavano intorno all’argomento. Ringrazia Lyotard che vuole dimostrare la debolezza come unico orizzonte possibile, ma avverte che anche la narrazione di Lyotard sta diventando una metanarrazione. Avverte soprattutto che la filosofia è rivoluzionaria, la si fa per creare dubbi, non per dare certezze; è convinto che esista una dimensione del pensiero e a differenza di Lyotard vuole dimostrare che il pensiero deve essere debole con se stesso. Non bisogna pensare cioè che quello che si dice sia la verità, altrimenti non è pensiero debole. Occorre guardare al passato con piètas, non lo si può ricostruire. Ce lo portiamo dietro come energia positiva che ha contrassegnato quel tipo di storia.
Se per Lyotard il pensiero debole è frutto di presunzione filosofica, Vattimo non condivide la debolezza in tutte le filosofie passate: una filosofia semplificata non era vietata, poteva esistere come punto di riferimento.
La società si è complicata, la vita sociale si è complicata, la famiglia è più complessa, la stessa politica è molto complessa. Bisogna allora guardare al presente con grande attenzione, saper vivere in dialogo con gli altri, non con la pretesa di voler imporre le proprie idee. Per Vattimo il pensiero debole ha una sua direzione, diversamente dobbiamo indirizzarlo noi e lui lo fa attingendo ai valori di sinistra, all’idea di uguaglianza e di valorizzazione del soggetto.
Vattimo ci invita a stare nella complessità,  ma per farlo ci vuole cultura. Il sistema non ci vuole ignoranti, il sistema ci vuole sapienti in quello che vuole che si sappia. Attenzione però – avverte Giannini – la conoscenza non è cultura; la competizione non è cultura. Nella società complessa oggi si cercano pensieri forti, il “ci penso io” di chi si propone per risolvere i problemi contingenti e che non si possono valutare con il giudizio di giusto/sbagliato. Bisogna trovare un meccanismo che guardi la complessità con attenzione.
Fra le metanarrazioni citate, al di là dei loro esiti, ce n’è una importante che guarda al logos, a mettere dubbio, capacità critica dell’uomo che ragiona e riflette sulle cose. Ed è l’aspetto positivo del logos. Ma esso ha anche un’altra dimensione: è l’arrivare a una complessità e risolverla, creando insieme la complessità e la semplificazione, pensiero divenuto affascinante nella ricerca della verità. Lo stesso Aristotele si chiedeva come portare la Verità in tutto il mondo, ma quando Alessandro Magno – suo discepolo – ritornò dalla conquista del mondo, scoprì che aveva diffuso sì il suo pensiero, ma aveva anche portato molto dalle culture che aveva incontrato. La logica della sua filosofia entrò in crisi. Sembra dunque più importante il comportamento che la ricerca della verità.
Per Epicuro (per certi versi forse il primo pensatore debole) la verità è impossibile; la felicità è nell’assenza di turbamento.
La filosofia entra così nell’idea di abbandono della verità ed apre alla filosofia dell’annuncio. Nascono le università che trovano difficoltà ad affermare il loro pensiero, a fronte della scolastica  e della logica dogmatica introdotta dalla chiesa, finché Galileo non afferma la separazione tra scienza e filosofia e Cartesio non separa il corpo dalla mente riformando l’idea platonica anche  a livello epistemologico tra certezza e verità.
In tutto il percorso affrontato fin qui, c’è una linea comune, una logica che ha caratterizzato l’occidente al di là del marxismo, dell’hegelismo, dell’aristotelismo o inserendo tutti questi insieme? La risposta è sì: è la logica del dominio, la logica dove per esistere nell’occidente devi essere dominante o dominato.
Un esempio dei nostri tempi è il fenomeno del bullismo, una affermazione retorica della logica del dominio, che fa passare il messaggio secondo il quale prima che essere inesistente è meglio essere vittima. La vittima esiste, l’inesistente no.
Il mondo occidentale, a partire dal pensiero di Marx, è caratterizzato da una classe dominante e da una dominata, che è parte del pensiero debole e ha caratterizzato tutti i rapporti umani: rapporti tra padre e figlio, rapporti di grande amore, carattere di prevaricazione; ma un buon padre deve essere anche autoritario per controllare il figlio, un buon insegnante deve saper tenere la classe sotto controllo e lo spirito di dominio si ripete.
Secondo Pitagora – ha ricordato di seguito il prof. Giannini – per mantenere la società in equilibrio, lo scontro andava creato tra i generi; su tale principio è andata affermandosi la figura del maschio dominante su quello della donna, che con la sua interiorità e mancando del pene, incapace perciò di dominare, andava dominata. Ma così dicendo il pensiero di Pitagora ha seguito l’antico percorso voluto dal logos.
Oggi chi vince ha ragione, ma chi perde nel confronto ha spesso molte giustificazioni e sentimenti forti. E la ragione separa realtà e giustizia. Ci siamo aggrappati alla ragione proclamata a dismisura dall’illuminismo, ma l’illuminismo ha finito per disumanizzare e distruggere tutto ciò che è stata l’età di mezzo; in realtà il medioevo non era tutto da buttare.
La ragione dominatrice crea così un nuovo asse. “Chi ha ragione? Chi vince!” e non si ammette discussione. Non a caso - ha continuato Giannini  - il XX° secolo è il secolo dello sport:  non ci sono discussioni: chi arriva primo vince. Non è sempre vero, però che chi ottiene più voti alle elezioni, abbia ragione, tuttavia è passata la linea che ”se il popolo lo ha votato, vuol dire che lui ha ragione”.
Come si può uscire da tale contraddizione? Difficile nel gioco delle parti trovare la quadratura del cerchio. In tutta questa debolezza di pensiero qualcosa è diventato paradossalmente più forte.
Qui il contributo di Giannini al pensiero di Vattimo, tutt’altro che inconsistente, arriva dall’intuizione che la debolezza è dell’umanità, non della logica; la logica, nata dall’uomo, è andata oltre l’uomo. E cosa c’è di più logico se non la logica del mercato? Pensiero spiegato mirabilmente da Bodei nel suo lavoro “La logica del delirio”.
Con “Verità e metodo” (1960) Gadamer anticipa Lyotard affermando che la verità è una necessità, non la si trova nei procedimenti logici, ma opera una “fusione di orizzonti. Non si tratta di un’opera democratica, ma aristocratica”. Si tratta di operare orizzonti, ma vanno ascoltati solo orizzonti di senso.
In realtà Gadamer si affida troppo agli intellettuali: figure inesistenti nel Novecento, secondo Gramsci, perché tale figura ha senso solo se è antisistema. Tutt’al più essi rappresentano la parte dominata della classe dominante e se oggi si dà voce all’opposizione è perché è passata la linea del dover mantenere chi contraddice, dandogli l’illusione di essere coraggioso (nuova figura di eroe).
Dal 1980 a oggi solo Pasolini è morto per difendere le sue idee. Ne “Le ceneri di Gramsci” la sua asserzione “Mi insegnerai tu, morto disadorno, ad abbandonare questa passione che mi spinge ad essere nel mondo” l’intellettuale deve uscire da questa passione, ma come? Con una critica gli basta poco per diventare un eroe.
Marcuse nel suo “L’uomo a una dimensione” entra in un pessimismo profondo, perché nella debolezza del pensiero è stato inglobato tutto il contrario di tutto, instaurando un meccanismo di falsa dialettica.
Sarà Sartre ad affermare che “Non bisogna più arrivare, bisogna tentare”. Accettare cioè che la mia coscienza possa non far coincidere il mondo con la nostra visione del mondo. Il pensiero debole allora da “così fu” passa a essere “così volli che fosse”: devo io ad essere convinto, a volerlo assolutamente.
Il più grande filosofo contemporaneo, Jacques Derrida, ha messo tutto in discussione. Se finora il pensiero debole lo si è voluto forte attraverso la “costruzione”, è arrivato il momento anziché di costruire, di decostruire. Decostruiamo il fatto che nel 1905 il treno, che sembra entrare nella sala cinematografica, non è reale, ma un’immagine, per cui non si scappa più di fronte al pericolo di essere investiti.
Ne “Gli spettri di Marx” Derrida afferma alla  fine che è nell’uomo il senso di giustizia.
Quando si commette un’ingiustizia, si è consapevoli. Essendo di sinistra, ma non marxista, in realtà è diventato lui stesso uno spettro, perché la metodologia di Marx può essere sbagliata, ma l’uguaglianza che Marx sosteneva, non aveva nulla di banale, anzi era di una profondità unica. Dobbiamo dare valore assoluto alla giustizia. Per fare ciò ed arrivare a un meccanismo di complessità occorre toglierlo alla legalità: verità e giustizia non vanno di pari passo.
In “Totalità e infinito” Leninas si chiede “Quando ci rendiamo conto di essere giusti? Quando incontriamo lo sguardo dell’altro”. Ma quando lo sguardo dell’altro chiede aiuto, io non sono più proiettato verso la totalità, ma vado oltre, vedo l’infinito. Leninas legge tale affermazione in una dimensione ideologica divina; Giannini la legge in senso di giustizia, di verità.
Farsi carico dell’altro – ha chiosato il filosofo livornese – vuol dire mettere in discussione tutti i meccanismi che teniamo dentro di noi ed avere il coraggio di scardinare tutto questo.
A lui il nostro grazie più sentito.

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