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L'arte nel paese dai sogni dorati​

No! Non è un semplice volume d'arte. Quello che Giuliana Donzello ha descritto è tutto un affresco di un epoca in cui l'arte, la cultura, hanno subito il grande influsso della politica.
Da questo volume emerge il profumo di una città unica al mondo e che l'autrice ha saputo con grande maestria descrivere (diremmo quasi dipingere) coinvolgendoci e facendoci vivere periodi storici di grande intensità.
Scrittrice, critico d'arte, docente di lettere, Giuliana Donzello è intrisa d'arte, di cultura, e porta con se tutto il profumo di quella città meravigliosa che tutto il mondo ammira e ci invidia.
Questo è un volume che tutti noi dovremmo avere sul comodino e rileggerne le pagine tutte le sere prima di addormentarci. Solo così le nostre notti ci porterebbero nello splendido paese dai sogni dorati.


Vania Partilora


Foto

​ARTE, ISTITUZIONE E POTERE
Un libro che riscrive la storia della Biennale di Venezia tra le due guerre​

Devo alla mia formazione artistica e all’esperienza maturata come ricercatrice presso il “Dipartimento di Storia e Critica delle Arti Contemporanee” di Ca’ Foscari (1979-1987) e successivamente all’A.S.A.C. (Archivio storico delle Arti contemporanee) la mia crescente passione per l’arte e per la Biennale internazionale d’arte della mia città. Esperienza che nel tempo si è consolidata con la docenza di formatrice presso la facoltà di Scienze dell’educazione dell’Università di Verona e la collaborazione direttiva presso l’Assessorato alla Cultura della città scaligera.

Di fronte ad un libro così complesso, la domanda che mi sono sentita porre è “perché”. Perché un’analisi su un argomento e per un tempo considerato su cui già molto è stato scritto. Ho risposto e rispondo che ci sono ritornata per uno studio comprovato, non per una cronaca scambiata spesso per una “letteratura” sull’argomento.

Ho cercato, ho voluto condurre un’analisi su fenomeni artistici visti “dall’interno”, sul ribaltamento di uno scopo, quello delle nozze d’argento dei sorani d’Italia, che ha spostato in realtà l’obiettivo governativo su posizioni politicamente più vantaggiose, tale da costringere il Governo e l’Italia a considerare la Biennale un caso italiano. E tutto ciò sullo sfondo di un’epoca di grande crisi economica, segnata tuttavia dal decollo industriale; un’epoca scritta dai valori morali e culturali della borghesia imperante e del positivismo, ma anche segnata dal ripiegamento sugli antichi aspetti conservatori e reazionari.

La Biennale trova un precedente nell’Esposizione Universale di Parigi del 1889 e in analoghe iniziative internazionali, alle quali si guarda e si acquistano le opere solo per questioni di decoro e di prestigio: a) per mimesi con la potente borghesia europea; b) perché fidando su mercanti dotati di intuito gli imprenditori sanno di poter prevenire la critica nella scoperta di valori (caso Vollard. Su questo sfondo nasce la Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro.

Il secondo scopo che mi sono data è stato quello di fornire delle risposte a domande importanti e ancora giacenti in attesa di chiarimenti, ovvero perché gli impressionisti hanno trovato solo porte sbarrate; il destino delle avanguardie: diffidenza verso l’impressionismo, l’incomprensione per il futurismo, l’esclusione in quegli anni di Picasso, presentato da un grande maestro, Zuloaga, che a Venezia era diventato un punto di riferimento della scuola spagnola; l’indifferenza per Modigliani (la municipalità era impegnata nei preparativi per il centenario della morte di Canova).

L’importanza dell’istituzione veneziana è data dal suo costituire all’inizio un organismo unico con la Galleria d’Arte Moderna, ed è questa che accoglie la lezione dei moderni (Monet, Pissarro, Sisley, Renoir), mentre la Biennale continua a non essere italiana, perché si guarda e si acquista con gli occhi puntati ai salons, alla secessione viennese e a Monaco.

Fondamentale è stato il ruolo dei tre segretari che si sono succeduti e che hanno garantito all’istituzione il conseguimento degli obiettivi per cui era nata: informare, documentare, educare le masse alla formazione del gusto. Fradeletto ha agito come un manager e creato sovrastrutture fondamentali per l’azione creativa della municipalità e perché la “mostra” diventasse una vera istituzione; Pica, il più illuminato, amante dell’arte e critico emigrato dalla letteratura di scuola francese (Goncourt); ha delle titubanze, dei dubbi, ma riesce a portare una ventata di nuovo nelle sale dell’esposizione con l’espressionismo di Ensor e un’apertura verso i suprematisti russi, Malevic e Rodcenko (1924), ma non più rappresentativi della rivoluzione, bensì come primo sintomi della crisi dei rapporti fra l’arte e il nuovo regime. Infine Maraini, il più conservatore, il più fascista, fedele allo spirito rivoluzionario che era stato del primo futurismo, che non esiterà ad opporsi al podestà di turno per far valere il suo progetto di trasformazione della Biennale in ente autonomo.

Di fatto, combattendo verso se stesso e cercando di districarsi nel caos culturale del tempo, Maraini continuerà a inseguire e realizzare modelli di destra con strumenti di sinistra, che faranno di lui un out-side; un inadeguato agli occhi del regime: troppo debole nelle decisioni, insofferente verso il governo, quindi troppo poco fascista.

L’ambito d’intervento del fascismo trovò la sua fortuna perché seppe innestarsi su un terreno di violente rivendicazioni sociali e nazionalistiche nel quale le prime, incapaci di inserirsi in un chiaro programma, finirono per far trionfare le seconde, permettendo alla reazione di porsi come rivoluzione. Fenomeno analogo accadde per le arti figurative, dove la concezione dell’arte e della cultura, come strumenti atti a incidere nel vivo della società, cedette il posto a un’arte mutuata dal grandioso passato ed esaltatrice del genio italiano.

Di qui il divorzio fra arte e cultura e l’isolamento in cui l’Italia ripiombava sotto la spinta nazionalista che trasformava l’arte in un ritorno infelice alla tradizione pittorica rinascimentale, e all’estetica dei suoi maestri. A un secondo futurismo andava corrispondendo un secondo fascismo; Mussolini in primis, dopo la fondazione dell’Istituto Nazionale di Cultura e dell’Accademia d’Italia inaugurava l’esposizione del ’26 riconoscendo nell’atmosfera di “Novecento” l’anima del fascismo: una Biennale aperta a tutti gli artisti italiani, anche a quelli che più tardi si sarebbero opposti a un’arte di Stato, perché il “Novecento” andava realizzando un’arte impegnata a riproporre la grandezza romana, anche se si risolveva in una pesantezza compositiva volutamente “brutta” e “urtante”.

Le voci dell’opposizione dopo la morte di Gobetti e l’allontanamento di Persico si erano già esaurite con la scomparsa di quest’ultimo e la soppressione del M.I.A.R., ed era diventato sempre più difficile mantenere le proprie posizioni. Il regime continuava con la fondazione di nuovi istituti (Ministero della Cultura Popolare, Ufficio dell’Arte Contemporanea, diretto da Bottai nel 1940), mentre la presenza dei tedeschi in Italia favoriva lo scatenarsi di forze violente di epurazione. Scoppiava tuttavia anche un chiaro contrasto tra i diversi gruppi del regime: i diversi fascismi, quello che faceva capo a Bottai, fautore di una lenta opera di penetrazione degli atteggiamenti razzisti; l’altro, Farinacci, fautore di epurazioni e violenze.

In questo clima Mussolini preferiva rimanere in disparte per apparire più opportunamente come protettore della cultura figurativa più rivoluzionaria, mascherando il suo proposito di asservire l’arte alla politica, affidare cioè ai sindacati, allo stesso Piacentini o all’ala estremista del partito il compito di mettere fine ai tentativi culturali più pericolosi, mantenendosi al di sopra delle polemiche.

“È indubbio che, al di là delle posizioni personali, proprio quegli anni cruciali hanno lasciato dei segni. Lo hanno detto le opere, la letteratura artistica e la pubblicistica del tempo, il dialogo fra le arti, l’immagine assurta a strumento potente di convincimento, la comunicazione di massa, anche se in modo distorto. Ma, com’è oggi pensiero condiviso, è proprio in quest’ultime prospettive che vanno individuate le diverse forme dell’arte pubblica tipiche di quegli anni segnati dalla manifestazione di un’arte che sarà completamente stravolta dalla guerra Quanto alla sua anomalia a livello storico e culturale, credo che il senso del decennio stia nel suo tramonto: splendido, se lo si legge preludio di un prossimo, nuovo fronte delle arti.

​Giuliana Donzello
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