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Simili nella diversità al tempo del covid-19
Giuliana Donzello | 1 aprile 2020 - Arte & Cultura
![]() l coronavirus sta mietendo vittime ovunque, senza adottare peraltro alcun sistema di selezione. Domenica, 15 marzo, tuttavia, a essere falciata è stata la vita di Vittorio Gregotti, stroncato da una polmonite all’età di 92 anni. Stiamo parlando del più autorevole degli architetti italiani e urbanista di fama internazionale. Figura poliedrica, di alto spessore artistico, tra i suoi numerosi studi, progetti, saggi, ha ideato fra altri gli stadi di Barcellona e Genova, nonché il discusso quartiere Zen di Palermo, il cui fallimento in fase di realizzazione va attribuito alle infiltrazioni mafiose negli appalti. L’Italia lo ricorda per aver posto la sua firma al Teatro degli Arcimboldi, a Milano. Ma vanno ricordati anche l’ampliamento del Museo d’Arte Moderna e Contemporanea dell’Accademia Carrara a Bergamo, il ponte sul Savio a Cesena, l’acquario municipale Cestoni di Livorno. Il progetto più recente a cui ha lavorato in Italia è stata la ristrutturazione dell’ex fabbrica del Gruppo Ilva a Teatro Fonderia Leopolda, a Follonica (GR), il nuovo edificio universitario alla Bicocca, a Milano, e la Facoltà di Medicina della Federico II a Napoli. All’estero, la progettazione del quartiere residenziale di Pujiang, a Shanghai.
Per questa sua attività, tanto creativa, quanto frenetica, la Triennale di Milano gli ha conferito la medaglia d’oro alla carriera nel 2012. Ad essersene andato non è solo un Maestro dell’architettura internazionale, ma anche un saggista, un critico, un docente, un editorialista e polemista, un uomo delle istituzioni, insomma, che, pur restando sempre e prima di tutto un architetto – come ha asserito Boeri, “… ha fatto la storia della nostra cultura, concependo l’architettura come una prospettiva sull’intero mondo e sull’intera vita”. “Prima vittima illustre del coronavirus in Italia”. Nato a Novara nel 1927, Gregotti si era laureato nel 1952 al Politecnico di Milano; nel 1964 è stato responsabile della sezione introduttiva per la Triennale di Milano e dal 1974 al 1976 è stato direttore delle arti visive e architettura della Biennale di Venezia. Professore ordinario di Composizione architettonica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, ha insegnato anche nelle facoltà di Architettura di Milano e Palermo e poi all’estero; ha lavorato in Giappone, Stati Uniti, Argentina, Brasile e Regno Unito. Tra i suoi oltre mille e cinquecento progetti, realizzati in Italia e molti anche all’estero, ricordiamo il Centro Culturale di Belém a Lisbona; il Dipartimento di Scienze dell’università di Palermo e la sede dell’Università della Calabria; il piano di edilizia popolare a Cefalù e il Centro ricerche dell’Enea a Portici. E poi gli insediamenti sempre popolari a Venezia, la sistemazione del Parco archeologico dei Fori imperiali a Roma. Ma anche la trasformazione delle aree intorno alla Bicocca, alla periferia di Milano, oltre alle sue tante pubblicazioni dal 1966 al 2019. Come architetto, Gregotti prese le distanze dalle teorie e dai modelli dominanti, ereditati dal movimento moderno (periodo collocato tra le due guerre mondiali, teso al rinnovamento dei caratteri, della progettazione e dei principi dell'architettura, dell'urbanistica e del design), per trovare ispirazione nelle culture locali e regionali. Nei suoi progetti adotta un approccio volto a metterli in relazione con la storia del luogo e non a un'astrazione che mira alla sua riproducibilità in qualsiasi sito (“Prima di tutto il ‘contesto’” dirà). Gli sono stati attribuiti diversi orientamenti nel suo lavoro. A volte è considerato legato ai nuovi razionalisti italiani, come Giorgio Grassi, riferendosi alle tesi di Jane Jacobs, Robert Venturi e Aldo Rossi, che avevano indotto un riorientamento della creazione architettonica in relazione ai dati del sito, questo già negli anni '60 e '70. L'interesse di questi teorici per la vita urbana e per la pianificazione urbana ha trovato un'eco nei successi dei membri della scuola del Ticino e di Tendenza - nome dato a questo gruppo di architetti storicisti. I valori ad esso attribuiti si basano su due principi anti-modernisti: da un lato, il rifiuto della tendenza universalizzante del razionalismo modernista e, dall'altro, il potenziamento delle fonti storiche, l'accoglienza delle tradizioni locali nelle logiche dei progetti e costruzione. Questi aspetti sono visibili sia nei progetti della sua ‘agenzia’ (lo studio che aveva fondato), sia nella sua densa produzione bibliografica. La memoria di Gregotti resta legata soprattutto all’aver portato l’architettura come ambito disciplinare alla Biennale di Venezia nel 1975, quale ampliamento del Settore Arti Visive durante la Presidenza di Carlo Ripa di Meana. Nella rassegna del 1976 affronta il rapporto con la realtà; fa produrre agli architetti una serie di progetti ad hoc, per i quali prima di tutto va privilegiato il “contesto” prima dell’ideazione, rivolgendosi a una generazione – quella del ’68 - che credeva nella storia e nelle utopie, e portando con il progetto di restauro del Mulino Stucky l’architettura sul piano dell’arte. Sarà così ispiratore, nel corso degli anni ottanta, di David Chipperfield e Common Ground nel celebrare le “idee condivise piuttosto che la creazione individuale”, portando a comprendere come “il lavoro degli architetti incida sulla società, al di là dei personali percorsi professionali”. Il suo pensiero dominante resterà comunque il “Rapporto con la realtà”, non come rispecchiamento dell’oggetto, ma come conoscenza e distanza critica, nato dall’esigenza ereditata dai dibattiti del ’68. L’amarezza non risparmierà gli ultimi anni della sua vita: consapevole del declino dell’architettura, in una delle sue ultime interviste aveva detto “Ormai ci chiedono solo di meravigliare. Ai giovani invece vorrei dire di non allontanarsi dalle nostre radici”. È il testamento di un uomo che aveva “… sempre concepito l’architettura come un prodotto collettivo”. |
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