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Uno sguardo dall'alto di Giulio Sapelli
Giulio Sapelli | 3 marzo 2020 - Editoriali
Nella società contemporanea sono frequenti le situazioni culturali che danno vita a comunità composte da un lato da individualisti che credono nella gerarchia e professano l'ordine sociale e - dall'altro - persone isolate e ribelli che lottano invece per la distruzione sociale.
Queste comunità di persone giungono a intersecarsi ma mai ad amalgamarsi e certamente nessuna comunità composta da isolati e ribelli è mai giunta ad assolvere funzioni di governo nelle nostre società industriali o post - industriali che dir si voglia. È proprio ciò che, invece, è successo in Italia nell'ultimo ventennio con la disgregazione dei partiti interclassisti di massa e l'emergere dei partiti pluripersonalistici con caciqui a geometrie variabili e a fortissime influenze esterne. Il quadro dei trattati interstatali europei in un continente senza costituzione dominato dal potere dei giudici incornicia il tutto in un quadro terribilmente olistico. È quello che è successo con l'incrocio tra trattato o accordo italo francese dell'altro ieri in cui la Francia e l'Italia dichiarano di avere interessi comuni mentre si combattono in Libia senza riguardo alcuno dal 2011 e il governo Conte n 2 invoca misure di emergenza per una epidemia che scaturisce indubitabilmente da una alleato di fatto di codesto governo come dimostra il Memorandum firmato con quello stato: la Cina di Xi Jinping. Non c'è situazione culturalmente più pericolosa per ingenerare sensi di esclusione, di vergogna, di colpa, che una epidemia per scatenare comportamenti collettivi olisticamente irriflessivi. Tanto più in un contesto ormai totalizzante di universi immaginari creati dai vari social media che hanno assunto via via sempre in questo ultimo fatale ventennio un potere condizionante i comportamenti sociali prima inimmaginabile. Così questo sentimento collettivo di angosciosa tellurica minaccia può divenire un formidabile plus - valore politico che i governi dominati da una lato dagli isolati ribelli e dall'altro - in un amalgama impazzito - dagli individualisti (liberisti e ordo liberisti anch'essi al potere) e dall'altro - ancora! - dal minaccioso ordine divenuto potere dei magistrati che sono invocati dai popoli di esclusi - ribelli e dagli individuasti gerarchici insieme, giungendo in tal modo a minacciare la decisione politica come ordinamento giuridico con il potere di fatto: di qui l'ordinamento di fatto che oggi vige in Italia, in spregio alla nostra Costituzione Repubblicana. Le classi politiche sono paralizzate nella decisione politica meditata e per questo ricorrono alla ginnastica agitatoria e minacciosa fondata sulla diffusione della paura. E non possono far altro che prosperare in tal modo e individuare nella diffusione del panico e nella mitica purezza minacciata la risorsa più forte per la loro continuità di circolazione ossia nella permanenza al potere. Le conseguenze economiche sono e saranno ancor più in futuro gravissime per la nostra economia e per la nostra stessa civilizzazione. Entriamo di fatto in una fase di stagnazione pre-recessiva dell'economia mondiale. L'Italia in questo caso potrebbe essere purtroppo una delle protagoniste, soffrendo più di qualsiasi altro paese. Le motivazioni sono riconducibile a due fattori: Il primo perché risulta essere il paese occidentale più colpito dopo la Cina dal Virus, per lo meno in base alla percezione mondiale. Il secondo perché l'Italia a differenza della Cina ha un sistema economico molto più fragile, con un tasso di crescita nettamente inferiore e ha scontato soprattutto una perdita di ricchezza dal 2008 ad oggi non indifferente. Cosa che non è toccata alla Cina. Una fragilità che la Cina, una volta uscita dall'emergenza sanitaria sarà in grado, almeno in parte, di recuperare, grazie al suo enorme mercato interno. Cosa di cui l'Italia non può disporre. Il sistema economico italiano è fortemente interconnesso con l'estero: basti pensare all'industria manifatturiera della Lombardia che ha una bilancia commerciale positiva nei confronti della Baviera. Per non parlare del sistema produttivo dell'Emilia Romagna e del Veneto, le vere locomotive economiche del paese. Le aree più toccate dalla diffusione del virus. Per non parlare dell'impatto sull'industria del turismo, con i flussi da parte di paesi esteri che sono già drasticamente calati sia al nord che al sud del paese. Il problema quindi per noi ha un duplice aspetto, interno ed esterno. Interno perché ovviamente, come facilmente osservabile nelle grandi e piccole città, la gente rimane chiusa dentro casa. I consumi crollano e la gente consuma solo beni di prima necessità. Un problema che verosimilmente si dovrà risolvere attuando una politica fiscale espansiva che abbia la capacità di stimolare e far reagire in qualche modo la crescita. Quest'ultima a sua volta stimolata grazie ad una inevitabile maggiore flessibilità da parte della Commissione europea. Esterno, perché il mercato interno italiano non è in grado da solo di recuperare il gap perduto. Rispetto al 2008 l'Italia è ancora indietro di circa 8 punti percentuali. I consumi e gli investimenti esteri ,potranno a venir meno a causa della percezione di paura che si avrà del nostro paese, con conseguenze inevitabilmente negative. Purtroppo perdere credibilità e sicurezza è molto più semplice e veloce che riacquisirla. È possibile osservare quindi, come il probabile innesco italiano, dopo quello cinese, possa avere delle gravi ripercussioni su paesi esteri, soprattutto europei, fortemente interconnessi con il nostro sistema economico. Circa metà del prodotto interno lordo italiano scaturisce dal Veneto e dal Friuli-Venezia Giulia e dall'Emilia-Romagna con una Lombardia che da sola fa il 60% circa della produzione agricola per non parlare del contributo che dà alla manifattura. Ebbene la Lombardia è stata colpita da un procedimento di segregazione di comunità industriali e agricole che potevano esser salvaguardate seguendo le politiche indicate dai medici e dagli scienziati italiani che si sono disvelati per quel che sono ovvero tra i migliori al mondo oltre che tra i più vituperati mal pagati e mal difesi al mondo e nonostante ciò difendono l'onore della professione e del loro ruolo di funzionari dello stato con ammirevole fermezza. Tutto ciò mentre un governo non eletto dal popolo e creato dalle geometrie variabili prima evocate vacilla, si divide, non trova la giusta via per rassicurare la nazione e per difenderne gli interessi in un agone internazionale sempre più incerto e che si aggraverà a causa dei conflitti che seguiranno il diffondersi del coronavirus nelle nazioni che più tardi dell'Italia hanno proceduto ai controlli e alle segregazioni prudenziali. Basti pensare a come si è posto il potere pubblico tedesco che pure è il partner commerciale più forte nei confronti della Cina o il Giappone e il Regno Unito che solo in questi giorni annunciano misure di protezione con la chiusura delle scuole e altre pratiche di cautela della salute pubblica. In questo contesto si potrebbe dare una svolta alla crisi da coronavirus - la prima e speriamo l'ultima - con la creazione di un governo di salvezza nazionale o di emergenza, e lo dice una persona che aborre i governi tecnici di cui si è abusato in Italia. Un governo siffatto, questa volta sì ci vorrebbe! Un governo che svolga il referendum sulla riduzione (ahimè) dei parlamentari, ridisegni i collegi elettorali e prepari nuove elezioni con una nuova legge elettorale senza esser messi sotto scacco, i nuovi ministri e il Presidente del Consiglio, dalla valanga di nomine pubbliche che s'addensa. Può essere possibile? In ogni caso sarebbe l'unica soluzione decente, trovate le persone giuste, per non essere sommersi dagli esclusi-ribelli divenuti governanti con un Tevere sempre più stretto. E questo sarebbe l'unica salvezza soprattutto se pensiamo in quali tristi condizini si torva l ‘Europa dal punto di vista geopolitico. La Spagna ha annunciato ieri che imporrà un tassa sul web anche senza ricercare un accordo europeo, ma per iniziativa diretta di un governo che si è formato dopo una serie di defatiganti negoziati e che si regge su una fragilissima maggioranza. E con una Catalogna sull'orlo del collasso istituzionale perché i suoi leader più noti e protagonisti delle vicende di un indipendentismo di fatto sempre più insurrezionale sono stati condannati a lunghi anni di carcere o all'esilio. Contro questi ultimi stanno procedendo i giudici dell'Alta Corte Europea con provvedimenti di estradizione che non potranno che infiammare gli animi dei seguaci degli indipendentisti e - di contro - dei centralisti, che sembrano tornati a risorgere in forma trasversale con inaudita forza. Mentre un alleato storico della Germania si dibatte in queste difficoltà istituzionale e reagisce alla sua crisi di fatto attaccando gli USA, che avevano intimato ai loro storici alleati di desistere da operazioni fiscali di tal fatta, ebbene la Commissione europea sta dando una mortificante prova di impotenza, unitamente al Consiglio, non riuscendo a raggiungere accordo sul futuro bilancio pluriennale. L'Europa è attraversata da faglie sempre più profonde destinate ad approfondirsi dopo la cosiddetta Brexit. Si insiste, nella discussione sul bilancio pluriennale, a questo proposito, sui bilanci contabili. Ma si dimentica spesso che nei bilanci non risultano i benefici (o gli ostacoli) che alla crescita e allo sviluppo economico continentale derivano dal regime di libero mercato, che favorisce di fatto le nazioni con cosiddetto “saldo netto” sfavorevole, ossia quelle che ricevono assai meno di quanto versano alle casse dell'Unione - e queste nazioni sono le più potenti se si valuta tale potenza sin base al PIL e alla produzione industriale. La Germania è quella con più alto saldo netto sfavorevole, seguita dalla Francia e poi dall'Italia. Un tempo la Francia aveva più o meno lo stesso saldo netto sfavorevole del Regno Unito. Ed è esattamente l'uscita dall'UE del Regno Unito che ha scatenato un conflitto tra nazioni che pare oggi difficilmente sanabile. Manca naturalmente un contributore importante e - mentre si cerca di riempire il vuoto contributivo che si è creato - crescono le richieste dei cittadini europei (come si desume dai sondaggi di opinione e non certo da confronti politici accesi e ragionati su questi temi) di aumentare l'impegno per la sicurezza e per i controlli delle migrazioni. Ma, dinanzi a queste esigenze le prime proposte scaturite dall'euro-tecnocrazia sono state quelle di ridurre le sovvenzioni all'agricoltura e alla «politica di coesione». Di più, e questo interessa particolarmente l ‘Italia, come tutti i “Sud dell‘Europa”, si minaccia di escludere ogni incentivo a sostegno delle nostre regioni, incluso il Mezzogiorno. Inoltre, si propone un'esplicita «condizionalità» nell'erogazione di fondi Ue, subordinandola al rigoroso rispetto dei valori fondamentali dell'Unione o delle regole su deficit e debito pubblico degli Stati. Simili opzioni possono privare le nazioni un tempo beneficiate di somme ingenti, che oggi arrivano dal bilancio Ue e che, a livello di investimenti, non verrebbero di certo compensate dai pur apprezzabili interventi europei per migranti e sicurezza. Dal confronto aspro che si sta delineando sul bilancio europeo pluriennale emergono tutte le debolezze in cui si è sempre più avvoltolata la tecnocrazia europea e gli stati che ne decidono le sorti, ossia la Francia e la Germania, alleate sulla carta (Trattati di Aquisgrana docet) e separate, invece, dalla storia e dal rapporto con gli USA nella praxi odierna. Ma tutto risiede nelle trasformazioni che il progetto europeo ha subito. Esso è stato originariamente varato con l'obiettivo dichiarato di garantire la pace attraverso una rafforzata cooperazione politica, che doveva essere fondata su un crescente benessere e una stretta solidarietà, così da contribuire a costruire una reciproca fiducia tra” nemici tradizionali”. Questo processo fu costruito sull'aspettativa che tutti i paesi europei avrebbero tratto vantaggi da una più stretta integrazione economica. Uno sviluppo che doveva inoltre essere socialmente bilanciato e solidamente radicato nelle democrazie nazionali occidentali, per fare da contrappeso ai sistemi economici e politici del blocco orientale. Questo processo radicato verso un progetto sociale, solidale e democratico di cooperazione europea fu quasi immediatamente abbandonato, infatti, terminata la guerra civile europea che imponeva di condure politiche sociali in funzione anti sovietica, dopo la “caduta del muro” nel 1989. Le modifiche ai trattati europei che vi hanno fatto seguito hanno avuto come obiettivo di rafforzare le forze di mercato e la concorrenza tra capitali e sul mercato del lavoro, ridurre la sovranità politica dei singoli paesi e rafforzare nel contempo il dominio delle istituzioni dell'UE da parte, volta a volta, della Francia e della Germani, con un peso crescente di una tecnocrazia incontrollabile e votata alla direzione dall'alto delle società europee. Il risultato di queste modifiche ai trattati ha aumentato la pressione economica e politica sulla originaria cooperazione tra stati nazionali. Un numero crescente di direttive dell'UE sono state assunte con una maggioranza qualificata, con la quale gli interessi delle nazioni meno potenti geopoliticamente, prima che economicamente, sono state soffocati. Le frontiere sono state aperte senza regole democraticamente identificate da un parlamento non di facciata come è invece quello europeo e la concorrenza economica è stata inasprita e non solo sul mercato delle merci, ma anche in quello dei capitali e del lavoro, con conseguenze destabilizzanti sulla possibilità di condurre delle politiche sociali e distributive appropriate alla realtà dei diversi paesi. Il sogno europeo di una pacifica, affluente e socialmente equilibrata cooperazione dentro gli accordi che originariamente furono raggiunti nel Trattato di Roma, si è infranto. L'élite 'europea' guidata dai burocrati di Bruxelles, dagli interessi del capitale non solo europeo e da un ceto “alto “ per reddito e formazione istituzionale intellettuale, si auto illuse (e si auto illude) che il desiderio maggiore dell'opinione pubblica fosse e sia quello di realizzare gli 'Stati Uniti d'Europa'(USE) mediante una accelerata cooperazione economica e poi politica. L'Europa sociale fu accantonata a vantaggio di una Europa centralistica, basata sul mercato e dominata dai capitali. Il desiderio dei popoli europei di continuare sulla strada della giustizia sociale, sia sul piano nazionale sia europeo, è stato sistematicamente spazzato via con affermazioni dispregiative come 'nazionalismo', 'populismo', e 'mancanza di conoscenza'. In alternativa si è proposto lo Stato europeo competitivo che dovrebbe, al contrario, in conseguenza della globalizzazione finanziaria, rafforzarsi, mentre lo stato del benessere, dopo il ‘crollo del muro', è stato via via posto in discussione. Il risultato di questo indebolimento delle democrazie nazionali e delle politiche sociali è evidente: una disoccupazione record e una crescente povertà e ineguaglianza. In questo contesto il bilancio europeo e la discussione a cui lo si sottopone altro non è che un sistema delle entrate, che se rimane dipendente dai contributi statali, come pare sia inevitabile, non potrà che ingenerare conflitti continui. Va “compensata” l'uscita del Regno Unito, ma i governi nazionali, come si evince dalla stampa europea e dalle dichiarazioni governative, continueranno a voler trasferire alla cuspide eurocratica il meno possibile delle loro risorse statali, per gestire invece da sé quote crescenti dei bilanci nazionali. La Commissione, invece, si orienta su nuove tasse: ma tale politica non fa e non farà che aumentare le distorsioni e le continue elusioni che scaturiscono dalle differenze tributarie tra gli Stati. Il cane europeo si morde la coda sempre più affannosamente. |
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